Le nostre incoerenti coalizioni

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Da condizione irrinunciabile a scelta libera. Non c’è più nessun obbligo in Italia di dare vita a coalizioni di governo (o ad alleanze di opposizione che aspirano a sostituire chi governa) in cui sia richiesto un accordo pregiudiziale e tassativo sulle scelte e sulla posizione internazionale del Paese. In passato non era così.  All’epoca della Guerra fredda era automaticamente escluso dalla possibilità di entrare in una maggioranza di governo chi non accettasse la collocazione internazionale dell’Italia, le sue alleanze. Con tutti i vincoli che ciò comportava. Nemmeno dopo la fine della Guerra fredda, anche se ormai per ragioni diverse, e per un lungo periodo, furono possibili, nelle coalizioni di governo, dissensi radicali sulle questioni di politica estera. Soprattutto negli anni Novanta (fino all’11 Settembre 2001), l’accordo sulla posizione internazionale dell’Italia non c’era solo dentro le coalizioni, di centrodestra e di centrosinistra. C’era anche «fra» le coalizioni contrapposte.

Se durante la Guerra fredda a contare era stata la «scelta di campo» (Occidente contro Unione Sovietica), nel primo decennio post-Guerra fredda si affermò, sulle fondamentali scelte internazionali, una forma di consenso bipartisan. I gruppi non allineati (come Rifondazione comunista) non avevano la forza per invertire la tendenza. La polarizzazione (stiamo parlando dell’età berlusconiana) era fortissima, lo scontro fra centrodestra e centrosinistra era violento.
Ma non riguardava la politica estera. Si capisce perché. Era il tempo dell’America trionfante. E, con essa, dell’Occidente vincente. Quasi nessuno, qui da noi, metteva in discussione la Nato o l’Europa. Il quadro cambia nei decenni seguenti. L’indebolimento progressivo degli Stati Uniti, l’emergere di movimenti anti-europei, il passaggio dall’«unipolarismo» americano al multipolarismo (ascesa cinese, ripresa della competizione fra le grandi potenze) cambiano le carte in tavola. Ovvero, consentono che si arrivi alla formazione di coalizioni (di governo e di opposizione) à la carte. Almeno sulla politica estera: ciascuno guarda il menù e sceglie liberamente il piatto (di politica estera) che preferisce.

Quando le classi politiche si imbattono in un problema che non possono risolvere, cercano di nasconderlo sotto il tappeto. Con gradi variabili di successo. In ogni caso la politica estera, al fine della formazione di alleanze fra partiti non è più un tabù: sei un putiniano mentre io sono schierato con la Nato? Vuoi che Putin si mangi l’Ucraina mentre io voglio difenderla? Hai idee completamente diverse dalle mie su come l’Italia dovrebbe comportarsi entro l’Unione europea? Perché mai simili quisquiglie dovrebbe impedirci di governare insieme?

È ovvio che quisquiglie non sono. Disaccordi fondamentali sulla posizione internazionale del Paese danneggiano l’Italia. In parte (ma solo in parte) il danno può essere ridotto, o non apparire in tutta la sua gravità, se i rapporti di forza entro la coalizione di governo sono tali per cui esiste un partito che sovrasta elettoralmente tutti gli altri. Come in questo momento il partito di Giorgia Meloni rispetto alle altre forze della coalizione. Ma anche così, la navigazione internazionale non è affatto tranquilla: vincoli sulle armi a Kiev, voci discordanti sull’Europa, eccetera.

Il problema — l’assenza di un accordo di fondo sulla posizione internazionale del Paese — diventa ancora più grave, e forse anche ingestibile, se le distanze fra i partner della coalizione si riducono. Se, ad esempio, poniamo, al prossimo giro vincesse ancora il centrodestra ma si riducesse il vantaggio elettorale di Fratelli d’Italia rispetto alla Lega. O se vincesse una sinistra in cui lo scarto fra il primo partito della coalizione (presumibilmente il Partito democratico) e il secondo partito (presumibilmente i 5 Stelle) non fosse troppo ampio. Nell’uno e nell’altro caso, in assenza di un accordo sulla posizione internazionale dell’Italia, la nostra politica estera diventerebbe confusissima, massimamente incoerente.

Le divisioni sulla politica estera sia dentro l’opposizione che dentro la coalizione di governo riflettono le divisioni che solcano il Paese. Anche se, va detto, non si limitano a rifletterle: contribuiscono ad amplificarle. Il grande rischio nell’età multipolare (supponendo, per amor di patria, che ciò non sia già una realtà) è che quelle divisioni forniscano stabilmente a potenze esterne i mezzi per costruirsi, ciascuna, la «propria fazione di riferimento» all’interno del Paese. Non è una riedizione della Guerra fredda: allora governava chi stava con gli Stati Uniti. All’opposizione c’erano invece gli amici dell’Unione Sovietica. Oggi non è più così. «Fazioni di riferimento» di potenze diverse convivono sia all’interno della maggioranza che dell’opposizione. È un effetto, sul piano interno, dell’emergente multipolarismo internazionale. Si spera che l’Italia disponga in futuro della coesione interna (quanto meno, interna alle coalizioni di governo) necessaria per presentarsi come un fronte sufficientemente unito davanti ai pericoli e alle sfide di questa nuova fase delle relazioni internazionali.
Vero è che non siamo gli unici in Europa a correre questi rischi. Anche se, a causa delle nostre tradizionali fragilità, qui da noi certe patologie della vita politica tendono ad essere più immediatamente visibili che altrove. Francia e Germania, tuttavia, non sono messe meglio.
Il rapporto Draghi ha documentato come e perché l’Europa, così come è, sia perdente nel gioco della competizione globale. L’insuperabile incoerenza delle coalizioni è un aspetto del problema.

14 settembre 2024

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