IL DESTINO
IN OSTAGGIO
No, non siamo padroni del nostro destino. Diventa sempre più evidente lo iato fra le lodevoli (ma vacue) intenzioni di noi europei e le controverse (ma concrete) azioni dell’America Maga. Con la consueta brutalità lo ha ricordato Donald Trump, che nella sua Versailles privata di Mar-a-Lago ha incontrato Volodymyr Zelensky: «Lui non ha nulla in mano finché non lo approvo io!», aveva premesso. Ieri, «tra una chiamata e l’altra con Putin» — come ha titolato maligno il sito del Washington Post — il presidente americano ha promesso garanzie di sicurezza «forti» a una Kiev martoriata dai missili russi anche durante i colloqui e pacche sulla spalla al «coraggioso» collega ucraino che per mesi ha bistrattato. Ha trasmesso la sensazione che qualcosa si muova, «sono pronti per l’accordo», ha assicurato, anche se Putin su una tregua non ci sente e il Donbass resta una piaga aperta. Zelensky, memore dell’umiliazione patita lo scorso febbraio alla Casa Bianca, ha imparato a mostrare grande gratitudine verso qualsiasi bizza dell’uomo che dà le carte: tentando al contempo di intrigarlo col business (la ricostruzione dell’Ucraina). Che salti fuori una pace, se non giusta almeno accettabile, da questo nuovo giro sull’otto volante è dura da credere.
E qui entreremmo in ballo noialtri. Il presidente ucraino cerca di aggrapparsi a ciò che resta delle democrazie liberali. Le videochiamate di sabato sera e di ieri (con Trump) raccontano l’ostinata ricerca di una cintura di sicurezza europea. Purtroppo per lui, l’Europa è un alleato dai piedi d’argilla. Bill Emmott ne ha sferzato la postura di quest’ultimo anno: «Porgere l’altra guancia»; e ha snocciolato il più recente rosario di umiliazioni patite dalla Ue per mano di Trump: dai dazi leonini fino al bando contro l’ex commissario al Mercato, Thierry Breton, «colpevole» di aver regolamentato da noi il Far West digitale caro a Elon Musk.
Per giocare davvero la partita ucraina bisognerebbe guarire dall’irrilevanza politica, figlia d’una cattiva gestione del turbinoso allargamento europeo dei primi anni Duemila. Una sorta di astenia affligge la nostra Unione nella sua forma di consesso intergovernativo paralizzato da veti reciproci. Ne è conseguenza un impeto declaratorio cui non corrisponde in genere alcuna azione concreta: ciò che un amaro Guy Verhofstadt battezzò «la politica dell’annuncio», ovvero «la costante promozione di grandi obiettivi senza i mezzi necessari per realizzarli». L’ultimo esempio nel dossier ucraino? L’esito del Consiglio europeo nella notte fra il 18 e il 19 dicembre. Un insuccesso di cui sono state date rassicuranti spiegazioni «tecniche». Ma la questione non è affatto tecnica. Per mesi l’Unione, con Ursula von der Leyen, è andata sbandierando l’intenzione di usare i famosi asset russi congelati in Europa, tramite i quali sostenere l’Ucraina aggredita, punendo al contempo l’aggressore: una mossa non solo economica ma etica e politica, che spaventava Mosca e indispettiva Washington, da cui sono arrivate infatti pesanti pressioni.
Di qui la marcia indietro in Consiglio e l’ennesima piroetta della flebile presidente Ue, priva d’autentico supporto popolare e perciò costretta a barcamenarsi tra i suoi soci, gli irrequieti Stati-membri. Intendiamoci. Le ragioni «tecniche» non sono campate in aria. Che Mosca possa rivalersi in tribunale sul Belgio (dov’è collocata, nella «cassaforte» di Euroclear, la maggior parte dei suoi asset) o che altri grandi investitori dalla reputazione non impeccabile (i sauditi, i cinesi?) possano ritirare i loro asset temendo qualche punizione analoga nel nostro continente, sono rischi da considerare. Fa, tuttavia, sorridere il ricorso al diritto internazionale di chi, come Putin, lo viola ogni giorno da quattro anni con una guerra criminale; e l’invasione dell’Ucraina resta un unicum in Europa dal 1945 in poi: dunque, mal si presta a parallelismi di sorta.
Si è detto che non è poi andata così male nella nottataccia brussellese. Che comunque sosterremo Kiev con debito europeo garantito dal bilancio comune. Ma ciò che si chiedeva all’Europa era uno scatto, specie di fronte a report che sempre più mettono i Paesi baltici sulla linea di tiro di Putin: un colpo coraggioso che non è stato battuto e che si sarebbe sentito fino al tavolo di Mar-a-Lago. Non vederne la distanza da transazioni raggiunte a fatica, tra Stati divisi per cordate, è bendarsi gli occhi.
L’argomento più solido contro l’uso degli asset riguardava in realtà i belgi: che avrebbero percepito una decisione impegnativa per il loro Paese come un abuso perpetrato da qualcuno non scelto da loro. E proprio questo ci riporta alla sostanza politica del problema: i vertici delle istituzioni europee devono essere diversamente legittimati. Va dato atto ad Antonio Tajani di avere affrontato il tema in un’intervista che parla alla sua stessa coalizione (nella quale i sovranisti invocano il cambiamento dell’Europa ma bloccano gli strumenti per cambiarla). Eliminare il diritto di veto su materie fondamentali; riunire il ruolo di presidente della Commissione e quello di presidente del Consiglio europeo in un’unica figura eletta direttamente dai cittadini; attribuire l’iniziativa legislativa al Parlamento europeo: senza questi tre passaggi la Ue diventerà in breve un mosaico di colonie americane, russe o cinesi a seconda dell’ideologia di chi ne guiderà gli staterelli sempre più vassalli. Il tempo stringe. In un anno, è stato implementato solo l’11% del tanto lodato Rapporto Draghi (una terapia d’urto per risalire la china). Come risponderanno gli europei a una ulteriore richiesta di impegno in Ucraina? È a leader divisi e incapaci di difendere sé stessi che torna a rivolgersi ora Zelensky. «Pace giusta e duratura!», salmodieranno loro. Una funzione non molto diversa da quella del coro nella tragedia greca.

Comments
Post a Comment