Le tre partite decisive di Merz, filo-americano senza illusioni che ora vuole salvare l’Europa
dalla nostra corrispondente Mara Gergolet Dagli asset russi al negoziato di pace, fino al patto sul Mercosur
BERLINO Quando, prima delle elezioni, chiesero a Friedrich Merz quale fosse la sua dote migliore, rispose: il coraggio. E una prova di coraggio, in questa settimana che ridefinirà gli assetti europei — nel bene o nel male —, che darà una risposta a Trump o certificherà l’irrilevanza europea nei Grande gioco, il cancelliere la sta dando. Per prendere in prestito un termine pokeristico — passatempo che Merz non pratica — è andato all in . Ha scommesso tutto sul fatto che tre accordi andranno in porto: i negoziati verso la pace; l’uso degli asset russi; e l’accordo Mercosur, che dovrebbe creare un mercato comune con l’America Latina di 700 milioni di abitanti (con tanti saluti al protezionismo di Trump). Sarebbe una consacrazione: a leader tedesco finalmente capace di incidere, posto che è rimasto vacante negli ultimi anni.
Merz è filo-americano per cultura, vocazione e esperienza di lavoro. È stato negli States cento volte. Però preso atto che l’America (vagamente reaganiana) che ha così amato, non c’è più, ne ha tratto da tempo le conclusioni. La scorsa settimana in Baviera ha detto «la pax americana è finita».
La sua vera ambizione, però, la missione politica che si è dato, sta in questa confessione fatta sull’aereo al corrispondente del New York Times: «Resto fiducioso che riusciremo a convincere in modo duraturo gli Stati Uniti e a portarli dalla nostra parte per porre fine a questa guerra insieme a noi in Ucraina».
Merz ha il pallino della politica estera, dove si fa aiutare dai due più fidati consiglieri: Günter Sautter, il suo cervello politico, e Jacob Schrot, il 35enne nerd (e uomo-macchina) che aveva vinto il reality «Posso fare il cancelliere». Condivide con Giorgia Meloni (e il finlandese Stubb) il fatto di essere l’unico leader europeo capace di sussurrare a Trump. Ma se si è inchinato subito agli Usa sui dazi — troppe erano le pressione delle industrie, a partire da quella dell’auto — ha invece assunto una postura più rigida sulla sicurezza europea. Arrivando a pronunciare diversi no, e rifiutando gli esiti di Anchorage, il patto Trump-Putin. È stato lui il primo a chiamare Trump quando è uscito il famigerato piano dei 28 punti. Se gli Usa ora offrono garanzie formali di sicurezza all’Ucraina è soprattutto merito suo.
Così come è stato lui, con una lettera al Financial Times a settembre, ad aprire la partita degli asset russi. Si è convinto che non c’era altro modo per evitare la bancarotta dell’Ucraina e per finanziarne l’esercito. Ha messo sul tavolo garanzie tedesche aggiuntive. Non ha mai voluto parlare di eurobond. Merz fa propria la resistenza tedesca, ha un habitat mentale rigorista, l’eredità di Wolfgang Schäuble. Come dicono i critici, ipotizzare la copertura con gli eurobond sarebbe stato meno costoso. Ma Merz può dire che non c’era tempo.
La terza questione sta molto a cuore ai tedeschi: il Mercosur, liberare finalmente un po’ di mercati per l’export. Dopo 26 anni di negoziati, sul più bello è arrivato il no francese: l’accordo è appeso all’Italia. Riuscirà Merz a portare con sé Giorgia Meloni, la «Meloni arrivata a Berlino piena di rabbia in corpo», come ha titolato ieri la Bild, giornale popolare ma termometro politico, lasciando trasparire per la prima volta un po’ di freddezza tedesca verso la leader italiana? Il cancelliere ha mandato a Roma il fidato ministro degli Esteri Wadephul, che si dice «fiducioso» di avere l’Italia a bordo.
Quattro giorni. Tanto serve a capire se Merz, pieno di guai a casa, ma anche avvocato dalla retorica secca, broker d’affari che sognava di occuparsi da cancelliere di temi strategici, è entrato — almeno in Europa —, se non negli abiti, almeno nelle funzioni che erano di Angela Merkel.
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