La tempesta d’Europa


La paura paralizza il Vecchio continente. La «psicologia della debolezza» porta a decisioni timide e a un crescente isolamento strategico. Serve coraggio politico
Insediandosi alla Casa Bianca nel marzo 1933, mentre la Grande Depressione devastava l’America, Franklin D. Roosevelt pronunciò le sue parole più celebri: «La sola cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa, l’irragionevole e ingiustificato terrore senza nome che paralizza gli sforzi necessari a convertire il declino in progresso».
È una lezione di cui oggi dovrebbe far tesoro l’Europa — l’Unione e i suoi Stati membri —, messa di fronte a una tempesta perfetta che minaccia di minarne le fondamenta, rendendola completamente marginale sul piano strategico, economico e diplomatico, in ultima analisi precipitandone la caduta. La paura, invece, sembra guidare attualmente tutte le azioni, o non azioni, dei leader europei: paura di perdere un alleato, che in realtà ha già bruciato i ponti del rapporto transatlantico; paura di alzare il livello della sfida, attrezzandosi contro una potenza ostile che guerreggia ai nostri confini e già lancia offensive ibride sui nostri territori; paura di ammettere e spiegare alle opinioni pubbliche che la pace, goduta per 80 anni all’ombra dello scudo americano, non è più la condizione permanente e inevitabile del Continente e che preservarla ha un costo. Paura infine di puntare sulle formidabili leve economiche, finanziarie e industriali del suo potere, riconoscendo e superando i limiti della frammentazione nazionale.
Quella che Steven Everts, direttore dell’Istituto europeo di Studi sulla Sicurezza, chiama «la psicologia della debolezza» è evidente sotto tutti i punti di vista. Mentre l’Ucraina resiste a una brutale guerra di aggressione, che gli stessi leader europei ormai di default definiscono «esistenziale» anche per noi, l’Europa è fuori da un negoziato che la ignora bellamente. Riesce al più a giocare di rimessa, guadagnando sprazzi di tempo e cercando di limitare i danni di una pace, che nei termini attuali significherebbe solo la sottomissione di Kiev allo Zar e la fine di ogni illusione sulla nostra chance di vivere sovrani e sicuri nei prossimi decenni. Esageriamo? «I Paesi occidentali — si legge sulla rivista del ministero degli Esteri russo, La Vita Internazionale — sono sempre meglio disposti ad ascoltarci quando le truppe russe mettono piede a Parigi o a Berlino».
«Invece di dire che faremo whatever it takes per sconfiggere Putin, l’Europa ripete che Putin deve essere sconfitto», nota Wolfgang Münchau. Ma nella realtà non riesce a lanciare il prestito da 140 miliardi all’Ucraina, usando i fondi russi congelati, per paura di garantirlo con una fideiussione comune, equivalente di un eurobond che terrorizza i più. E sì che i 70 miliardi di euro l’anno di cui ha bisogno Kiev per non piegarsi all’invasore e strappare una pace giusta, equivalgono appena allo 0,35% del Pil di tutta l’Unione europea.
E cos’è stata se non la paura, a farci accettare l’accordo capestro dei dazi al 15%, con in più il balzello degli acquisti energetici e degli investimenti negli Usa? Abbiamo rinunciato alla forza di un mercato da 450 milioni di consumatori, per uno scandaloso atteggiamento di appeasement, che ci umilia e non solo penalizza le aziende europee, ma non ha affatto placato gli appetiti predatori di Donald Trump, il quale ora pretende mano libera per gli onnivori oligarchi americani del Web. Di quante altre lezioni abbiamo bisogno per renderci conto che l’alleato americano si è trasfigurato, che il rapporto transatlantico è finito?
Questo non significa che sia sbagliato per gli europei cercare quando è possibile convergenze con l’Amministrazione Usa, con questa come con la prossima. Significa però, come spiega Martin Sandbu del Financial Times, che è giunto il tempo di un decoupling, un distacco ragionato «teso a minimizzare il danno che gli Stati Uniti a guida Maga sono in grado di infliggere all’Europa». Dobbiamo farlo nel commercio, sganciandoci dalla dipendenza dagli Usa, reciprocando i dazi e cercando altri mercati. Dobbiamo farlo unificando il mercato dei capitali, come indicato da Mario Draghi ed Enrico Letta nei loro rapporti, per riportare a casa i 300 miliardi di euro che i risparmiatori europei investono ogni anno nelle Borse americane. E dobbiamo farlo nella difesa, costruendo un’alternativa europea con il finanziamento comune delle nostre capacità militari strategiche. È un buon inizio il successo di Safe, la linea di credito dell’Ue da 150 miliardi di euro per investimenti nella difesa di gruppi di almeno due Paesi. Ma è solo un bonsai. Non dobbiamo per forza farlo tutti. Draghi sostiene giustamente che possono iniziare a farlo gruppi di Paesi volenterosi, come Germania, Francia, Polonia, Italia e anche il Regno Unito.
L’Europa deve soprattutto tornare a pensare nel lungo termine. L’ultima volta lo abbiamo fatto nella seconda metà degli anni 80 e nei primi anni 90, quando 200 mila esperti animarono oltre 2.000 gruppi tecnici per elaborare il concetto del Mercato Unico. Deve però cominciare adesso, il tempo non è più dalla sua parte. Nei giorni scorsi, a Strasburgo, è stata lanciata la Europa Power Initiative, cofirmata da oltre 200 personalità dell’accademia, della politica, dell’imprenditoria e della cultura. Si propone come mobilitazione civica, in grado di premere sui governi perché agiscano per costruire una potenza europea democratica e globale, capace di «controllare il proprio destino». È la direzione giusta. Ma come ammoniva Roosevelt, esorcizzare la paura è il passo più urgente.
3 dic 2025 | 20:19
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Comments
Post a Comment