Il futuro di Putin

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La vita di ieri è finita. E non tornerà più. Questo il titolo con il quale Nezavisimaya Gazeta, il più liberale dei quotidiani moscoviti, sempre sul filo tra libertà condizionata di pensiero e prigionia in senso non solo figurato, presenta l’ennesima settimana decisiva dei negoziati sulla possibile fine della guerra in Ucraina. Sono passati quasi quattro anni ormai, da quando tutto cominciò. Molti cambiamenti nelle vite di tutti, molta stanchezza, molta polarizzazione nelle società di tutto il mondo. Ma quello che fatichiamo a comprendere, e ad accettare, è come l’essenza stessa della Russia sia cambiata in modo radicale e irreversibile nel corso di questo tempo. «La normalizzazione è possibile, ma su altre basi» si legge nell’articolo che abbiamo citato, senza firma, quindi attribuibile al direttore Konstantin Remchukov, per altro uomo di solida cultura occidentale. «Può Vladimir Putin accettare oggi il “rules based order” occidentale nei confronti del suo Paese? La risposta è ovvia: no. La Russia non vuole tornare a tale “ordine” come una sorta di premio per la pace, come fosse una carota o un torrone. Questo ordine non rappresenta più un valore per la Russia. È un valore per l’Ue, ma non per noi».
È da qui che bisogna cominciare. Dalla fine dell’illusione.

Chi è convinto, e in Italia ce ne sono molti, che una volta siglata una pace, giusta o sbagliata non importa, tutto tornerà come prima, si sbaglia. Oppure mente a sé stesso. Se non altro, in Russia fanno professione di realismo. Anche se le giovani generazioni, il ceto medio e quello abbiente continuano a guardare con nostalgia e rimpianto all’Europa, nessuno immagina un riavvicinamento al vecchio continente, neppure nella più rosea delle ipotesi. Quella era la vita di ieri, che piaceva a tutti o quasi. Ma nella storia di questo immenso Paese, a comandare, è sempre stato un solo uomo.
Putin si è spinto troppo oltre. La sua strategia, ridisegnata dopo il breve periodo della conquista di Kiev in tre giorni e la vana speranza dell’accettazione di tutti del fatto compiuto, si basa su linee guida che non tengono conto del nostro pensiero e delle nostre esigenze. Per il Cremlino, il rapporto con «l’Occidente collettivo» è ormai solo una questione di soldi, di affari da stringere con il miglior offerente, venite ad aiutare la nostra economia di guerra sempre più traballante, denaro e tecnologie in cambio delle nostre infinite materie prime. Nient’altro. La richiesta di essere riammesso in un eventuale G8 è fumo negli occhi. Putin vuole rendersi indipendente da Europa e Usa, o non ricattabile, per seguire gli alisei della sua visione storica. Cerca un rafforzamento del suo peso globale a colpi di contratti firmati dalle multinazionali del petrolio e del gas. Ma le fondamenta di un sistema alternativo di potere sono già state gettate. La Russia intende parteciparvi, anche se consapevole del fatto di essere un socio di minoranza. Anche qui, nel nuovo Ordine mondiale.

Proprio alla vigilia della visita a Mosca dell’ormai celebre Steve Witkoff, dopo una lunga melina Putin si è rassegnato a mantenere la promessa fatta tre mesi fa a Xi Jinping, firmando un decreto che abolisce i visti per i cinesi che vogliono entrare in Russia. Sembra un gesto di cortesia, così viene presentato dalla propaganda. In realtà, il Cremlino si piega a una richiesta ineludibile dell’alleato più forte, rinunciando al proprio sovranismo e aprendo le porte a una massa immensa di lavoratori che colonizzeranno la Russia orientale.
Ma è un amaro calice che Putin è disposto a bere, nel nome della sua nuova strategia globale, che considera l’Occidente collettivo come un nemico, al massimo come un bene ampiamente fungibile cui si può rinunciare senza alcun rimpianto. Il confronto con la sua indisponibilità a qualunque vera concessione sulla questione ucraina vale più di ogni altra parola. Anche il rapporto con gli Usa dev’essere valutato alla luce di un dado che per la Russia è già stato tratto. Nessuno parla di amicizia o di intesa duratura. Le indicazioni informali dell’amministrazione presidenziale ai media rivelano ben altro. La deferenza con la quale viene trattato Donald Trump è dettata dal semplice interesse. Uno Zio Sam lunatico e ricco, da lodare e sfruttare, finché c’è.
In tutto questo, l’orgogliosa e ostinata resistenza di Volodymyr Zelensky e del suo popolo, costituisce al tempo stesso un fastidio e una questione di principio. Il Nuovo Ordine Mondiale non potrebbe mai accettare di avere tra le sue guide una superpotenza incapace di aggiudicarsi un conflitto locale nella lontana Europa. 

Al di là delle poche frasi lasciate cadere per tenersi le mani libere in caso di accettazione totale delle proprie condizioni, non c’è un solo indizio della reale volontà russa di arrivare a una pausa delle ostilità. L’economia che fa sempre più fatica non avrà alcun effetto deterrente, al massimo comporterà una ulteriore torsione autoritaria della quale si stanno intravedendo già i segni, per sopire il malcontento della società russa. Questa non è la Cecenia, ereditata da Boris Eltsin. Non è la punizione lampo inferta alla Georgia, non è la lontana Siria. In un Paese che ne è forgiato, non tutte le guerre sono uguali. Questa è la guerra esistenziale di Putin, è il conflitto per il quale lui verrà ricordato nei libri di Storia, sua massima aspirazione. Non una figura di passaggio, l’ultimo homo sovieticus, ma un condottiero. E un vincitore, che per essere tale ha bisogno non di apporre la propria firma su un trattato, ma di territori altrui da rivendicare.

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