La Cina corteggia i suoi vicini ma il Pentagono avverte: difenderemo Taiwan

La priorità per gli Usa: sbarrare la strada alla Cina qualora tenti l’annessione di Taiwan. Ma per averne i mezzi la Difesa dev’essere disposta a «prendersi dei rischi in Europa», ovvero ridurre le forze dispiegate nelle basi Nato e le risorse dedicate alla protezione del Vecchio Continente
Arrivare in Giappone in questi giorni significa assistere all’altra faccia dello shock-Trump: visto dall’Estremo Oriente. Il trattamento riservato agli europei – sia sui dazi che sul fronte militare – fa temere agli alleati storici in Asia di non poter più contare sulla protezione americana. Xi Jinping ne approfitta per lanciare un’offensiva della seduzione: nell’arco di una settimana ben due vertici triangolari Cina-Giappone-Corea del Sud, si sono tenuti qui a Tokyo. Ed ecco che da Washington, con singolare tempismo, è giunto in visita il segretario alla Difesa Pete Hegseth per rassicurare il governo del Sol Levante sulla solidità della protezione militare americana. Al tempo stesso si è verificata una fuga di notizie sul nuovo documento strategico del Pentagono. Contiene la conferma che i «falchi» anti-cinesi avrebbero al momento la meglio alla Casa Bianca: al punto da teorizzare apertamente che un disimpegno dall’Europa è il prezzo da pagare per poter fermare con ogni mezzo l’espansionismo di Pechino in Asia. In particolare, il documento formalizza la missione del Pentagono di combattere e respingere un’invasione cinese di Taiwan.
Sono giunto a Tokyo sabato, mentre la città è al centro di un attivismo diplomatico vorticoso. Subito prima che arrivasse qui il segretario alla Difesa Hegseth per parlare col suo omologo Nakatani, nel weekend il ministro nipponico dell’Economia, dell’Industria e del Commercio ha ricevuto i suoi due omologhi dalla Cina e dalla Corea del Sud. Esattamente una settimana prima sempre a Tokyo si era tenuto un summit identico fra i tre ministri degli Esteri degli stessi paesi. I vertici fra queste tre nazioni non sono inusuali ma neppure troppo frequenti, l’ultimo fra i titolari degli Esteri risaliva al 2023; a livello di ministri economici invece non succedeva da cinque anni. Proprio mentre mancano pochi giorni al «giorno dei dazi» – il fatidico 2 aprile in cui Trump ha annunciato nuove tasse doganali – Tokyo Pechino e Seul hanno rilanciato il dialogo per la riduzione delle barriere protezioniste. Inevitabilmente, molti osservatori lo hanno descritto come il segnale di una svolta, l’avvio di grandi manovre per disegnare un Estremo Oriente post-americano o anti-americano. Vista l’antifona, cioè visto come Trump tratta gli alleati europei della Nato, giapponesi e sudcoreani ne traggono le conseguenze. Cioè si avvicinano all’altra superpotenza, fanno buon viso a cattivo gioco, si preparano ad essere parte di un sfera d’influenza cinese. Questa è stata una lettura diffusa dei due summit a scadenza ravvicinata.
Che Pechino abbia interesse ad alimentare una simile narrazione, non fa alcun dubbio. Il ministro cinese degli Esteri, Wang Yi, al vertice di Tokyo con i suoi due colleghi ha citato un antico proverbio orientale: «È più utile il vicino di casa, rispetto a un parente che vive molto distante». La Cina persegue da tempo l’obiettivo strategico di espellere gli Stati Uniti dalla sua sfera d’influenza. Con Trump diventerà più facile?
Tuttavia, nelle stesse ore in cui Wang Yi invitava giapponesi e sudcoreani a consegnarsi nelle braccia del «vicino di casa», la sua Cina mandava una nave militare ad aggredire un peschereccio giapponese, in una delle tante zone marittime contese. Non proprio un gesto amichevole. Del resto la Cina fa queste incursioni armate nelle acque dei vicini costantemente, anche ai danni di Corea del Sud, Filippine, Vietnam. Non parliamo di Taiwan – che per Pechino è solo una «provincia ribelle»– nelle cui acque è ormai in corso un’esercitazione quasi permanente delle forze armate cinesi, a metà strada fra la simulazione di un’invasione, e la prova generale di uno strangolamento marittimo.
Giappone e Corea del Sud sanno che come per gli europei anche per loro la difesa militare americana non è scontata, non è garantita al 100%, forse non sarà eterna. Ma se Trump dovesse accelerare un disimpegno, ambedue questi paesi sono a un bivio, non troppo dissimile da quello degli europei occidentali verso la Russia: possono arrendersi alla superpotenza più vicina e accomodarsi nella sua sfera d’influenza con tutto ciò che questo comporta; oppure possono scegliere di imparare a difendersi da soli. Il dibattito sul riarmo nipponico ebbe un forte impulso già ai tempi in cui era premier lo scomparso Shinzo Abe. In Corea del Sud non è più un tabù la questione se dotarsi dell’arma nucleare, che il vicino dittatore nordcoreano Kim ha già.
Consapevole di questi dibattiti, l’amministrazione Trump sembra intenzionata a rassicurare i suoi alleati asiatici: con un atteggiamento diverso da quello adottato verso l’Europa. La riprova è nella fuga di notizie del Washington Post, che ha pubblicato estratti di un documento riservato del Pentagono sulla Cina, proprio mentre il ministro della Difesa Hegseth atterrava a Tokyo. Secondo il quotidiano della capitale Usa, quel documento sarebbe ricalcato quasi testualmente da uno studio del think tank conservatore Heritage Foundation. Intitolato «Interim National Defense Strategic Guidance», il rapporto contiene le nuove direttive dell’Amministrazione Trump per il Pentagono. La priorità: sbarrare la strada alla Cina qualora tenti l’annessione di Taiwan. Per averne i mezzi la Difesa Usa dev’essere disposta a «prendersi dei rischi in Europa» (leggi: ridurre le forze dispiegate nelle basi Nato e le risorse dedicate alla protezione del Vecchio Continente). Nelle nuove priorità strategiche di Washington vengono al primo posto la difesa del territorio nazionale dall’immigrazione illegale; l’interdizione dell’emisfero occidentale e degli spazi limitrofi a potenze nemiche (vedi i dossier Panama-Cina, Groenlandia-Russia), e la protezione di Taiwan dall’invasione cinese.
Con Trump è sempre rischioso azzardare l’esistenza di una Dottrina, stabile e affidabile. Ma il «pivot to Asia» era una tendenza enunciata già ai tempi di Barack Obama e oggi sembra confermata, in un caso non del tutto raro di continuità bipartisan. Già ai tempi di George W. Bush esperti democratici e repubblicani convergevano sulla necessità di riorientare l’attenzione strategica degli Stati Uniti verso l’Indo-Pacifico. La novità è lenta a maturare, ma è sostanziale, probabilmente inevitabile e inarrestabile.
Per capire la portata storica della svolta è utile ricordare il punto di partenza. Verso la fine della seconda guerra mondiale una delle conseguenze degli accordi di Yalta (febbraio 1945) fra i futuri vincitori Churchill Roosevelt Stalin fu la divisione di varie parti del mondo in zone d’influenza. La spartizione non venne mai decisa in modo chiaro, molte interpretazioni su Yalta sono poi state riviste e corrette. Spesso al di là degli accordi quello che contava era l’occupazione militare dei territori: chi ce li aveva se li teneva. In ogni caso in Estremo Oriente le Coree furono divise. Ma quella del Nord, comunista, cominciò subito a preparare l’invasione-annessione del Sud. Nel 1950 il dittatore di Pyongyang Kim Il Sung (il nonno dell’attuale leader Kim Jong Un) ebbe il via libera da Stalin e Mao. Un elemento chiave, nella decisione dei tre leader comunisti, fu l’ambiguità dell’America. Gli Stati Uniti nel dopoguerra con il presidente democratico Harry Truman non avevano mai detto se consideravano la Corea del Sud uno degli alleati strategici, se in quell’area vedevano un interesse vitale da difendere. Perciò probabilmente Kim Stalin e Mao pensarono di potersi annettere la Corea del Sud con facilità, dopo aver piegato una resistenza dell’esercito locale, senza rischiare un intervento americano. E in effetti il soccorso degli Stati Uniti fu in forse fino all’ultimo. Quella di Truman era un’America stanca di guerra, stanca di salvare il mondo: aveva finito di combattere in Europa e in Giappone solo cinque anni prima, i reduci erano appena tornati a casa, avevano voglia di dimenticare e voltare pagina. «Entrare in guerra in Corea nel 1950 – avrebbe confessato Truman – fu la decisione più difficile e sofferta della mia presidenza, più ancora che gettare la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki».
Lo stesso Truman era stato appena tre anni prima (1947) l’artefice del Piano Marshall per la ricostruzione dell’Europa; per lanciare quel cantiere strategico e per finanziarlo non aveva esitato a sfidare la corrente isolazionista del Congresso. Truman quindi sull’Europa non aveva dubbi, mentre ne ebbe a lungo sull’Estremo Oriente. Oggi il mondo è cambiato e l’America di Trump sembra accelerare la traiettoria imboccata da quella di Bush-Obama.
31 marzo 2025, 17:02 - Aggiornata il 31 marzo 2025 , 17:31
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Comments
Post a Comment